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giovedì 21 giugno 2012

"Fermati attimo sei bello"


Se un dio ci dicesse: " lo ho il potere di farti dormire e sognare sogni felici in eterno. Sta a te la scelta: o restare sveglio, mortale e infelice o addormentato, immortale e felice. " Che cosa sceglieremmo? Se l'essere umano cercasse soltanto il piacere, se tutto fosse mosso dal principio del piacere, non c'è dubbio che noi dovremmo scegliere il sogno. Eppure proviamo una resistenza, ci ripugna addormentarci, ci sembra che la felicità, in sogno, non sia una vera felicità, ma quasi un surrogato. Non è da uomini essere felici " in sogno ", noi vogliamo esserlo da svegli, nella vita reale. E quella del sogno è, per definizione, una vita non reale. Ma che differenza ci sarebbe per noi quando sogniamo non sappiamo di sognare, la vita del sogno è soggettivamente reale. Una volta addormentati non possiamo fare il confronto. Ma proprio questo ci turba, di non poterci "svegliare": cioè di riconoscere il sogno come sogno, di distinguere l'illusione dalla realtà.
Certo ci sono dei momenti, nella nostra vita, in cui accetteremmo la proposta del dio, i momenti di dolore profondo, di tensione insopportabile, o quando ci tormenta la sofferenza fisica. Allora vorremmo non sentire più nulla, o dimenticare, e saremmo disposti a barattare la nostra povera consapevolezza con un sogno sereno. Alcune volte siamo così disperati da desiderare addirittura la morte. Ma, salvo questi periodi terribili, c'è qualcosa in noi che ci spinge ad essere coscienti. La nostra scelta va istintivamente alla coscienza, non all'incoscienza. La vita, l'intensità vitale si identifica, per noi, con la coscienza. E i punti più alti della vita sono anche i momenti di più alta coscienza. Il sonno ed il sogno possono essere un rifugio, un rimedio, ma non una meta.
Qualcuno potrà obiettare: ma allora perché tanta gente usa delle droghe? Un eroinomane, un cocainomane sa benissimo che ciò che prova dipende dalla droga, eppure la usa lo stesso. Se gli uomini volessero veramente essere coscienti non userebbero tante droghe che producono stati emotivi artificiali, allucinazioni, deformazioni dello spazio e del tempo. Certo vi sono dei drogati che desiderano dimenticare il mondo, scivolare dentro un sogno da cui non vorrebbero più dolorosamente svegliarsi. Ma si è già detto che tutti noi, in certe circostanze della nostra vita, faremmo lo stesso. Chi usa queste droghe non riesce più a sopportare la vita senza di esse; quando ne è privato soffre atrocemente e ha bisogno di altra droga per sfuggire a questo stato. Però anche le droghe, in generale, non vengono usate per " dimenticare ", per stordirsi, ma per arricchire, intensificare la propria esperienza. Le droghe sono sempre state usate nelle religioni per produrre stati di coscienza che favoriscono il contatto col divino. Anche in molti movimenti recenti, come quello dell'LSD di Timothy Leary, la droga è stata uno strumento per accedere ad uno stato di coscienza più elevato. In questi casi l'uso della droga non è una evasione dal mondo, ma un tentativo di comprenderlo più a fondo, nella sua essenza. Questo almeno nelle intenzioni iniziali perché, ad un certo punto, la droga crea assuefazione ed uno ne ha bisogno non per andare avanti, ma per restare fermo. In sostanza la droga non ci pone nessun problema fino a quando non rende schiavi. Ma cosa significa rendere schiavi? Che chi la prende non può farne a meno, che deve restare nell'ambito dell'esperienza che essa provoca. Non importa se questa esperienza è più alta o più bassa, felice o infelice. quello che suscita il nostro rifiuto è il fatto di non poterne uscire. Esattamente come nell'esempio fatto all'inizio. È molto probabile che domani venga scoperto un qualche farmaco capace di dare uno stato di beatitudine, e - immaginiamo - senza alcun effetto secondario o danno fisico. Eppure, anche in questo caso, noi ci opponiamo al suo uso continuato ed ininterrotto. Perché è un sonno, perché la felicità così ottenuta non ha nulla a che fare con un confronto con la realtà. Ma, allora nella nostra idea di felicità c'è implicito un confronto con il mondo reale, una azione in esso. Nel sogno, sia pure un sogno di beatitudine, manca qualcosa di essenziale: il confronto con la realtà, il confronto con ciò che si è e ciò che si potrebbe e vorrebbe essere: la libertà. Nel sogno noi siamo totalmente determinati dal flusso del sogno. Anche se prendiamo decisioni, queste non sono decisioni reali, non determinano nessuna conseguenza, perché nel sogno non c'è né causa né effetto, non c'è azione libera. Nel sogno ci manca la coscienza del sognare che può venirci solo dal confronto con un altro stato, la veglia. Ma, soprattutto, nel sogno, mancando il reale, ci manca anche il possibile e, quindi, l'autodeterminazione.
Possiamo dunque dire che noi uomini siamo mossi dal principio del piacere? Sì perché facciamo azioni che ci procurano piacere o che, perlomeno, noi pensiamo ce lo possano procurare. Però, nello stesso tempo, no, perché la promessa di un continuo piacere, anzi della stessa felicità non ci interessa se questa non può realizzarsi nella realtà, coscientemente e liberamente.
Prima di proseguire riflettiamo un istante su un fenomeno che tutti conosciamo ma di cui non comprendiamo l'aspetto rivelatore. Qual è la più grande felicità che l'essere umano possa trovare sulla terra? Io ritengo - non ne ho naturalmente le prove ma l'ipotesi è verosimile che questa felicità si abbia quando noi ci innamoriamo e ci sentiamo riamati. Allora esplode dentro di noi una gioia indicibile e il tempo stesso, raggiunta la sua perfezione, sembra fermarsi. È il nunc stans, il nunc aeternum, il " fermati attimo sei bello " di Goethe, il momento in cui la vita, nel singolo individuo, sembra raggiungere il suo apogeo e cessa ogni preoccupazione ed ogni meschinità. Ebbene, questa esperienza può avvenire solo se l'altra persona è veramente innamorata di noi. Se lo fa per interesse, per paura, per pietà tutto svanisce. La nostra felicità dipende esclusivamente dalla sua spontaneità. Ma non basta neppure questo: l'amato deve essere spontaneo e, nello stesso tempo, volere la sua spontaneità, volerci. Questo esempio ci mostra molte cose: che la forma più alta di felicità dipende non solo da noi, ma anche da un altro. Il mio innamoramento è un aprirmi, un chiamare l'amato. Ma se questo non risponde io sono perduto. È perciò necessario quell'aprirsi, quel chiamare, ma è necessaria anche la risposta. E questa deve essere ad un tempo spontanea e volontaria. Il che significa che il mio innamorarmi è un'attesa, un rischio a cui può non giungere risposta. La felicità è perciò legata all'incertezza, al rischio, al domandare senza l'assoluta sicurezza che mi giungerà il sì, perché l'altro deve essere totalmente spontaneo e totalmente libero e, perciò, totalmente imprevedibile. Come è lontana questa situazione dal sogno! Nella vita reale la felicità ci appare continuamente sospesa sull'abisso dell'improbabile; c'è proprio perché non abbiamo certezze; scaturisce dall'incontro del mio desiderare con la realtà, ma dove la realtà ha la mia stessa natura: spontanea e libera. Certo noi cerchiamo il piacere. Però il piacere non può essere assicurato in anticipo, ci appare come grazia, come miracolo, come qualcosa in sovrappiù.
Questo dell'amore non è un esempio casuale, anzi ci indica la legge profonda della vita che, da quando è incominciata sulla terra, tre miliardi di anni fa, è sempre stata un avanzare sulla strada dell'improbabile. Mentre l'intero universo, per la legge dell'entropia, tende verso stati sempre più stabili, e cioè più probabili, la vita nasce con l'edificazione di strutture sempre più complesse: i batteri, gli animali, l'uomo, la società umana. L'innamoramento non è che la forma a noi più prossima dello stato nascente, dell'emergere della solidarietà sociale, la forza che unisce gli uomini in unità complesse ed articolate. Il piacere dell'innamoramento è, perciò, il piacere che accompagna l'erompere del nuovo, ed il nuovo è sempre stato l'improbabile, il frutto miracoloso di ciò che era slegato e che ora, unito, diventa traboccante di forza. Nella sua forma più alta la vita ci presenta esplicitamente quanto già era nel profondo: una tensione rivolta, nello stesso tempo, verso l'unità, la solidarietà, la spontaneità e la libertà. E non un sogno, ma un'azione reale, una trasformazione, una creazione reale.
Nota: ricerche letterarie su amore e innamoramento
Quando i filosofi e i saggisti parlano dell'amore si riferiscono implicitamente all'innamoramento. Così fa R. BARTHES nei Frammenti di un discorso amoroso (Einaudi, Torino 1979), oppure MAX SCHELER in Essenza e forme della simpatia (Città Nuova Editrice, Roma 1980, pp. 225-285). Lo stesso per V. JANKÉLÉVITCH (Traité des vertues, vol. II, Flamrnarion, Paris 1970)· Negli ultimi due, seguendo una lunghissima tradizione filosofica, questa esperienza però sfuma in quella dell'amore in generale o della carità. In realtà la "follia divina", di cui Platone parla nel Fedro, può essere riferita solo all'innamoramento o al re - innamoramento spontaneo o per perdita. Il nunc stans è un particolare aspetto dell'esperienza dell'innamoramento e corrisponde ad altre espressioni come "estasi" oppure "rapimento" (Barthes). La distinzione fra innamoramento e amore introdotta in Innamoramento e amore da F. ALBERONI (Garzanti, Milano 1979) era stata anticipata da STENDHAL in Dell'amore (Garzanti, Milano I976) e, in modo meno esplicito, da C. SIMMEL (Frammento sull'amore, Athena, Milano 1929.· Hortega Y Gasset tratta dell'innamoramento, ma tende a considerarlo uno stato patologico, che deve essere tenuto distinto dal " vero amore" non meglio definito. Nella tradizione psicoanalitica la distinzione è totalmente assente sia in FREUD quanto in T. REIK (Amore e lussuria, Sugar, Milano 1960) come in FROMM (L'arte di amare, I1 Saggiatore, Milano I978)· Una maggior sensibilità per gli aspetti discontinui ed eruttivi della vita e dell'eros la si trova in GEORGES BATAILLE (La Part Maudite, Ed. de Minuit, Paris 1949) o in ROGER CAILLOIS (Le Mythe de I'Homme, Gallimard, Paris I938) così come nel già citato JANKÉLÉVITCH.
Scrive Jankélévitch: "No, Endimione addormentato non è felice e Aristotele aggiunge: nessuno può essere felice a sua insaputa, la felicità risiede nell'essere, e non nel non essere; la felicità risiede nell'azione e non nel possesso," ;VLADIMIR JANKÉLEVITCH, OP. Cit., V01. I, P. 72. Come è noto Endimione, mitico re di Elide, ebbe da Zeus la possibilità di sostituire la morte con un sonno eterno.




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