Oltre alla crisi economica, nel mondo occidentale è presente una crisi di valori. Si distorce ogni sentimento; tutto ciò che dà piacere o profitto è accettabile, persino giustificabile. Per questo si vive in un mondo sempre più povero di bellezza: dai palazzi senza stile ai disordinati cimiteri d'automobili, dal cattivo gusto nel vestire all'esibizionismo sgrammaticato di tante persone che parlano attraverso la televisione. Trionfa il modesto e, purtroppo, ci si sta abituando al brutto. La bellezza, per molti, non è armonia, verità, emozione interiore, ma calcolo commerciale, un profitto economico costruito a tavolino dai maghi del business.
Si rincorre il bello omologato, non creativo.
Spesso lo si scambia per quello che «piace», perché si è troppo arroccati in se
stessi e carenti nell'educazione. Anche se il nostro paese è ricco d'arte (l'Italia
ne detiene il 70 per cento del totale mondiale), si
lascia ai turisti il piacere di fare il pieno di emozioni estetiche,
sempre che non si debbano chiudere i musei per mancanza di personale e questo è
proprio il massimo dell'incultura, anche in senso turistico.
Spesso non si sa gustare la bellezza perché il rumore, le luci al neon, i telefoni portatili, i dépliant pubblicitari o lo stress medesimo disturbano, non permettono di fermarsi, di «vedere». Probabilmente si perde il senso della bellezza perché sta sempre più scarseggiando l'amore, come sintonia, rispetto, libertà, valore morale. Oggi infatti c'è una carenza di morale e di etica (i due termini si equivalgono, anche se nel mondo cattolico si usa la prima mentre in quello laico la seconda); mancano validi principi nei rapporti interpersonali e nei comportamenti affettivi, amorosi e sessuali. Sono cambiati i pudori, le voglie e, soprattutto, i rimorsi. Non si avverte più la colpa o, in termini cristiani, il peccato.
Nel passato, anche recente, ogni cosa era chiaramente divisa per cui era
più facile distinguere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto, il buono dal
cattivo, gli amici dai nemici. Attualmente invece la cultura dominante
non ha più le categorie per valutare certe cose come positive o negative,
perché molte certezze si disperdono nel pluralismo o nel relativismo morale.
Cattivi maestri hanno abbattuto i confini tra il Bene e il Male, facilitando
comportamenti lasciati al giudizio della coscienza individuale. Abbondano
infatti coloro che, in balia di una concezione soggettiva della libertà,
esagerano nel rivendicare un'autonomia morale; soggetti che, senza fare più riferimento
a ideali e valori, personalizzano anche le norme, in un'etica del «faida-te». E così, se nel passato il più delle volte chi faceva il male
sapeva di farlo, oggi chi lo commette si sente innocente.
La coscienza individuale, nel nome di un valore assoluto dato alla libertà, non sempre è buon giudice degli atti umani. Perché la libertà dell'uno, non soltanto finisce dove comincia quella dell'altro, ma è condizionata dalla morale altrui. Anche la libertà deve avere una sua misura perché, se non è contenuta entro i limiti del benessere comune, si trasforma in violenza. Infatti si subisce quotidianamente la maleducazione di chi è vicino, al punto che ci si stupisce se qualcuno è onesto e generoso. Per tutto ciò si avverte la necessità di ripristinare una morale nella politica, nelle amministrazioni, nel mondo del lavoro, nella scuola e persino nei riguardi del rapporto uomo-natura; soprattutto si avverte il bisogno di ricuperare certi valori nelle relazioni di coppia e familiari.
C'è l'esigenza di un
ritorno alla gentilezza, alla correttezza, all'intimità, all'onestà, alla
generosità, all'oblatività. E tra le motivazioni mature che fanno
desiderare un ricupero dell'amore vi è anche la paura dell'inquinamento
cosmico, della guerra, della droga, della solitudine, dell'indifferenza per il
bene comune, della manipolazione genetica, della fecondazione artificiale,
dell'inseminazione da provetta selvaggia: tutte situazioni tragiche per
l'umanità, che si devono evitare o controllare.
Se però si analizzano con più attenzione le
cause che portano a invocare questo amore migliore, che fanno desiderare il
ritorno di questo valore, si constata purtroppo che la vocazione al suo
ricupero non sempre parte da una maturità psicologica, cioè da una conquista
evolutiva, ma spesso si radica in motivazioni immature e cioè nell'ansia da
solitudine, nell'angoscia del rifiuto, nell'opportunismo, a volte persino nella
gelosia in quanto, non potendo avere quel determinato potere, si teme che
l'altro più fortunato possa avere di più.
È impossibile saper amare se non si cambia dentro. Non si può voler bene in modo maturo se non si è diventati persone psicologicamente adulte, condizione unica che può determinare autentici effetti positivi. Amare con maturità significa infatti essersi impegnati nel costruire se stessi, creando in sé qualità, valori, virtù. E questo lavorio, giorno per giorno, con impegno e fatica, non è un compito facile, specie in questa nostra «società della pigrizia», dove i sostantivi sacrificio, lavoro, costanza sono retaggio dei meno furbi; dove la perseveranza è degli stupidi perché, magari con l'intrallazzo o la corruzione, si può avere tutto e subito e, se poi non lo si ottiene, la colpa è sempre degli altri o della sfortuna e vi sono gli psicofarmaci, l'alcool, la droga e magari il suicidio per evitare l'amaro della sconfitta.
La povertà affettiva
È facile farsi «intruppare» in una società
proiettata verso il soddisfacimento dei propri desideri e del proprio
tornaconto, cinicamente indifferente ai bisogni altrui. Scarseggia la
solidarietà, tutto va contrattato. Si finisce così condizionati dagli altri,
dagli avvenimenti, dalle cose, riparandosi dietro l'alibi infantile del «tutti
lo fanno». La quantità in senso statistico non corrisponde però al giusto e al valido.
La maggioranza spesso coincide con la massa,
dalla quale l'individuo psicologicamente maturo deve prendere le distanze. Se «tutti lo fanno» è perché il
mondo è pieno di immaturi e quei pochi che non lo sono non sempre hanno il
coraggio di distinguersi dalle «mandrie». Per questo sono rare le
persone che ispirano un riposante senso di fiducia nella vuota e deludente
vanità del mondo che ci circonda. Oggi è infatti
difficile incontrare figure di forte tensione emotiva, che provochino
un'immediata e positiva reazione transferale.
Tutti abbiamo fattezze umane, tutti abbiamo
nella pelle un involucro di uomo o di donna, ma non tutti abbiamo costruito
dentro di noi qualcosa di umanamente maturo. E questo lo verifichiamo spesso
nei rapporti interpersonali. Quando incontriamo esseri «vuoti», che non
soltanto non hanno potere seduttivo (cioè non hanno fascino, e non solamente in
senso amoroso), ma neppure spessore umano. Sono individui che magari
hanno fatto i soldi e conseguito una laurea, ma non hanno costruito se stessi
nei valori dell'humanitas e che quindi non sanno «leggere» la propria vita o
quella degli altri per sintonizzarsi con se stessi e con il prossimo. Ci
riferiamo a quella pietas dei latini, che corrisponde all'empatia,
all'autentica partecipazione a quanto vive l'altro e che purtroppo ai giorni
nostri è vista come una debolezza, come il cedimento di un Io debole. Perché viviamo in una «cultura» dove
essere generosi è uno spreco di risorse, dove «buono,, è sinonimo di «debole»;
una società dove lealtà, coerenza e integrità morale sono parole desuete, dove
la gente ha paura della bontà e considera stupidi coloro che la vivono.
Oggi più che una crisi di valori si riscontra la mancanza di un «sistema» di valori, cioè di una gerarchia di norme. Le regole ci sono, ma non sono rispettate perché poche sono le persone mature. Per questo in una società confusa come la nostra si avverte la scarsità di senso etico, la necessità di trovare parametri precisi in base ai quali promuovere la crescita dell'uomo. C'è bisogno di un catechismo laico, di ricuperare il senso della responsabilità personale, anche perché la minor rigidità delle norme sociali esige una maggior maturità psicoaffettiva.
Purtroppo nella nostra società narcisistica
non c'è tempo per il «conosci te stesso», per andare in
profondità. Si vive in un mondo troppo velocizzato per cui non si ha il tempo
di imparare e di ricordare, quindi si dimentica. È una società che, accelerando
ogni ritmo di vita, è capace di far perdere all'Io i suoi confini. E allora
sovente, per tamponare, si punta all'eteropossesso, cioè al dominio delle cose
esterne, non all'autopossesso. Ci si allontana da se
stessi per inseguire i miti del successo e del potere e, quando ci si chiede
che cosa si è per se stessi, si corre il rischio di non sapersi rispondere.
Capita però che, prima o poi, arrivi il momento in cui si smetta di sognare e di credere nei sogni. Succede che improvvisamente ci si svegli da questo torpore e si scopra di non essere quello che si credeva o di essersi molto allontanati dalla strada che si voleva percorrere. Ci si vede allora con la povertà affettiva, peggiore di quella materiale, perché corrisponde all'incapacità di dare attenzione, tempo, affetto, calore, solidarietà. Si comprende che non si ama l'amore, che è faticoso essere buoni specie verso chi non può fare nulla per noi, mentre si è disponibili e cordiali con le persone di cui si ha bisogno. Soprattutto ci si accorge che non si sa più parlare con le persone povere.
Poco alla volta si sta iniziando a prendere
coscienza che nei cromosomi non c'è la legge morale, che non si nasce con una
coscienza, che l'egoismo e l'opportunismo non pagano, perché
non portano da alcuna parte se non all'homo homini lupus. Anche se con molte resistenze, ci si comincia a
rendere conto che non si può vivere difendendosi o guardandosi le spalle da
tutti, a trecentosessanta gradi. E, pur se scomodo, si avverte il bisogno di
darsi delle regole, la necessità di un'educazione dei sentimenti per
sopravvivere sereni, per vivere con un significato. C'è fame di salute etica,
di sanità morale, quindi di padri e madri familiari, sociali, politici e
persino religiosi, che insegnino a rispettare se stessi e gli altri. Perché non
funzionando i modelli di identificazione, si è persa anche l'idealità.
Per conquistare il senso del vero amore
occorre attuare un rinnovamento psicologico che porti
l'uomo al centro della vita affettiva e non soltanto economica e tecnologica,
che tenga conto dell'essere umano come persona e non come cosa da usare e da
sfruttare. È dunque indispensabile ricominciare «da dentro» per
riagganciare l'uomo a se stesso, per entrare nel suo nucleo centrale, per
conoscersi, capirsi e accettarsi di più. Il prendere contatto con la propria
risonanza interiore permetterà di comprendere i propri desideri e di vivere
pienamente le proprie scelte.
Soltanto con fatica si potrà riprendere il contatto con se stessi, pensare per proprio conto, amare e voler bene nel rispetto di se stessi e degli altri. Cessare così di spersonalizzarsi, di vendersi al miglior offerente, iniziando invece a comperarsi. Sarà questo l'affare più redditizio della vita.
La fatica di «crescere»
Si
diventa adulti non soltanto per l'acquisita maturità fisica e intellettiva, ma
per aver raggiunto anche una maturità psicologica. Questa corrisponde allo
sviluppo della personalità in tutti i suoi aspetti, con un'adeguata evoluzione
delle varie capacità e disposizioni che, in partenza, sussistono in un dato
individuo, analogamente a quanto avviene per lo sviluppo fisico che consente
alle varie parti del corpo di evolversi in modo proporzionato e armonico.
Scrivendo questo non intendiamo però delineare
la maturità psicologica come uno stato di perfezione, un'armonia ideale
difficilmente raggiungibile, che sarebbe utopistica e, in ultima analisi,
disumana. Infatti maturità psicologica non significa
assenza di tensioni, di conflitti; non è uno stato idilliaco, un paradiso
terrestre. Nemmeno significa perfetto dominio di sé, poiché anche l'uomo maturo ha momenti d'impulsività, di ansia, di
dubbio, di tensione. Tuttavia non vive al riparo di un'ideologia, di una moda,
di un partito o di un gruppo di potere; non si preoccupa d'aver appoggi o di
essere nel «giro»; soprattutto non presenta arresti di sviluppo, fissazioni o
regressioni a comportamenti tipicamente infantili, tali da impedire una
condotta adeguata alle varie situazioni.
È
infatti necessario sapere che le coincidenze, le combinazioni del caso, gli
incontri segnati dal fato, sono nella maggior parte causati da noi. Il destino
non è determinato dai geni che trasmettono i genitori, è necessità interiore.
C'è infatti un rapporto molto intenso tra il nostro modo di essere e i fatti
che ci accadono perché, se non c'è disponibilità interiore nel ricevere e partecipare
alle cose che ci succedono, queste hanno un valore scarso o nullo.
Anche se il nostro destino non è interamente nelle nostre mani, tuttavia siamo noi stessi uno tra i fattori importanti che contribuiscono a modellarlo. Siamo infatti noi a decidere l'utilizzo degli eventi esterni con dei misteriosi regolatori che operano nel profondo della nostra psiche. Se infatti guardassimo con più attenzione a certi avvenimenti, valutati superficialmente come effetti del caso, scopriremmo che li abbiamo gestiti in positivo o in negativo anche nelle loro conseguenze, perché in quel preciso momento vivevamo una particolare situazione emotiva, disponibile o meno all'evento. Ad esempio, l'incontro con la stessa persona può essere determinante o trascurabile a seconda del momento in cui accade; a volte capita d'averla già conosciuta, senza averla mai «vista» veramente. Se infatti abbiamo problemi o preoccupazioni, non sempre capiamo il senso della comunicazione dell'altro e non ne contraccambiamo gli impulsi emotivi per cui tutto cade nel nulla, e magari perdiamo l'amore.
Certi destini nascono e crescono quindi nel
nostro profondo e, se ci conoscessimo di più, daremmo più importanza a noi
stessi che al caso. Se ci volessimo anche più bene, probabilmente certe gratuità
della sorte ci toccherebbero o ce le faremmo toccare più spesso. Se fossimo anche più liberi dai
sensi di colpa, potremmo godere di più. Tutti,
uomini e donne, vogliono sia l'amore che la libertà. Libertà dall'altro,
beninteso, senza preoccuparsi della libertà da se stessi, mentre l'autentica
maturità psicologica non è tanto il liberarsi dagli altri o di dominarli quanto
l'armonizzarsi con le proprie parti profonde in maniera che certi padroni
interni non disturbino.
«Liberare» se stessi significa conquistare
alcuni traguardi, tra i quali, ad esempio, l'autonomia
psicologica. Infatti per poter vivere sereni è necessario possedere
un'autonoma capacità di pensare, decidere, costruire, amare: cioè una certa
dose di libertà. L'uomo beneficia infatti di una libertà parziale, non
assoluta. E anche questa non è innata, ma deve essere conquistata con uno
sforzo costante contro le forze biologiche, psicologiche e sociali per giungere
a un autodeterminismo che, pur essendo relativo, influisce seppur in parte sul proprio
futuro.
Una certa libertà di scelta è un diritto
irrinunciabile, anche se non è facile regalarsi la libertà dì essere liberi.
Motivazioni e conflitti inconsci influenzano, e qualche volta determinano, le
scelte consce. Infatti quanto più si comprendono
scientificamente i fenomeni psichici, tanto più appare ridotta la libertà. Chi
è poi vissuto in strutture autoritarie (familiari, politiche o istituzionali)
ha paura dell'autonomia, che implica impegno, lotta, responsabilità. La
libertà fa infatti paura perché comporta l'aver diverse possibilità, la
tensione di scegliere, l'impegno a doversi responsabilizzare. Infatti essere
liberi significa autodeterminarsi, cioè orientare la propria volontà e il
proprio comportamento secondo un proprio principio.
Vi sono soggetti che raramente agiscono, il più delle volte
reagiscono. Conservano un'illusione di spontaneità, di autenticità, di
libera scelta, ma sono manovrati e persuasi ad agire da più o meno
subdole forze esterne.
E probabile che alcune persone passino tutta la vita senza aver compiuto
un solo atto veramente volontario, malgrado siano convinte di «volere» o di
«non volere» le cose. Altre scelgono chiaramente la dipendenza, affidandosi a
un contesto politico, religioso, sindacale o sportivo, e il loro spirito
gregario esprime soltanto insicurezza.
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