Carlo Castellaneta. Alla ricerca di una vita possibile
Ho
sempre pensato, e continuo a pensare, che alla fine della vita sapremo di noi
stessi, nel migliore dei casi, l'ottanta per cento di quanto ci serviva per essere felici.
Perché nell'altro venti per cento ci sono tutte le contraddizioni irrisolte che
ci siamo portati dietro fino all'ultimo giorno, i dubbi, le paure, le illusioni
che ci hanno accompagnato dall'infanzia alla vecchiaia, intrecciati in modo
così complesso da non riuscire mai a venirne a capo.
Antonella Clerici - Dal calcio ai fornelli - Quanta strada !!! |
In
effetti il segreto di un'esistenza felice sarebbe proprio questo: saper
identificare al momento giusto i nostri bisogni profondi, cioè dove sta il nostro bene.
Si direbbe un traguardo elementare, se non fosse che, a quella che possiamo
definire "la voce della coscienza" che dovrebbe guidarci senza
sbagliare la rotta, si oppongono giorno per giorno centinaia di altri richiami.
Sono voci esterne, molto spesso futili, che però non possiamo fare a
meno di ascoltare, e che mettono in dubbio le certezze del giorno prima. In
quella zona oscura del nostro essere, in quel buio insondabile del venti per
cento sconosciuto, si scontrano le pulsioni più varie: la saggezza è messa in crisi dall'ambizione;
la serenità è continuamente aggredita
dalle tentazioni; le
passioni si fanno beffe della ragionevolezza. E il passare del tempo
anziché placarsi spalanca nuovi inquietanti interrogativi.
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E
se andassi a vivere in campagna? E se tornassi a stabilirmi in città? E perché continuo a pensare a quella donna che conosco
appena? Oppure è il lavoro che non mi dà più soddisfazione? E a chi potrei confidare questa
inquietudine?
Così
si agitano dentro di noi le passioni più diverse, a volte in contrasto l'una
con l'altra. Potrei fare un figlio. Oppure
lasciare il lavoro e girare il mondo. Dare un senso alla mia vita impegnandomi nel volontariato.
O magari farmi un amante…
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Paradossalmente
siamo immuni da queste suggestioni quando siamo preoccupati da un problema serio, economico o di salute.
Altrimenti la mente non cessa di inseguire le sue chimere. Anche quando
credevamo di sapere ciò che volevamo, la realtà si è incaricata di smentirci. O
meglio, siamo noi che siamo cambiati. E adesso diciamo: no, non è questa la persona che desideravo, non è
questo il mestiere che volevo, non è questa la vita che sognavo.
Avevamo
intravisto uno spiraglio di luce, e subito la porta si è richiusa sul buio.
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Come
uscire allora da questo vicolo cieco? Simile a un treno in corsa che attraversa
fasci di binari, la spinta dei desideri apre e chiude gli scambi, si entusiasma
e si deprime, incapace di scegliere il binario definitivo. Ma chi sarà in
questa corsa il vero macchinista del treno?
Noi o le nostre debolezze? Conoscere i nostri punti
deboli, intanto, sarebbe già un buon risultato. Il guaio è che alle
debolezze siamo affezionati molto più che alle nostre virtù, e anche quando le
conosciamo è molto difficile opporvisi. Le debolezze chiedono di essere blandite, soddisfatte,
sanno persino ammantarsi di nobili ragioni. Ma
prima o poi ci presentano il conto, quasi sempre quando l'errore è stato
commesso o l'abbaglio consumato.
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Così
fragile è la natura umana da indurci a prendere decisioni di cui ci pentiremo,
solo perché dettate da pura vanità o da sollecitazioni esterne, che niente
hanno a che fare con un bisogno profondo. Oppure operiamo scelte secondo la convenienza,
ispirate da illusori calcoli che nascondono invece le nostre paure. E sotto
questo aspetto si può ben dire che il destino è la
somma delle nostre fragilità.
Vi
sono periodi in cui sembra essere il Caso a governare l'esistenza, e allora abbiamo bisogno di tutta
la Fortuna
possibile, poiché ci sentiamo in balia dei venti. In altri periodi invece
abbiamo la sensazione esaltante di essere noi da soli a reggere il timone, che è poi la consapevolezza
delle nostre forze.
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Comunque,
quale che sia il nostro comportamento, passivo o attivo, continuiamo a navigare
a vista, senza carte né strumenti di bordo, dando piccoli colpi di timone per
correggere la rotta appena avvistiamo qualche scoglio. Ma siamo sicuri che sia questo piccolo cabotaggio
la vita che abbiamo vagheggiato da giovani? Cioè quando sognavamo le
grandi traversate?
Credo
che risieda in questa sperequazione tra progetto e riuscita il nocciolo della nostra
scontentezza. Presi nel vortice di continui cambiamenti sociali e mutamenti di
valori (fra i quali primeggia il mito del denaro,
e in secondo luogo del successo) arranchiamo
come cani di un cinodromo dietro la lepre che non raggiungeranno mai.
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L'usa
e getta che la società ci impone come modello ci lascia alla fine con un pugno di mosche. Questo
lo sappiamo, ma senza cadere in un rifiuto totale, che sarebbe irrealizzabile,
sentiamo tuttavia un bisogno di certezze che diano più senso alla vita. Non
esistono nella vita istruzioni per l'uso, e dunque l'empirismo è d'obbligo
quando si parla di felicità individuale. Cioè di qualcosa che riguarda prima di
tutto la sfera dei
sentimenti (non soltanto amorosi) che sono per loro natura labili e
soggetti a continue oscillazioni.
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Così
consumiamo le nostre giornate spendendo quel poco o tanto di coraggio che
abbiamo unicamente per sopravvivere, senza
pensare a come rinnovarci, ma con la oscura cognizione di uno spreco, cercando
qualche consolazione nelle
vacanze, in un viaggio, nel cambiare l'automobile, nel cercare una casa in
campagna, sapendo benissimo che l'appagamento sarà solo temporaneo, e
altri desideri sopravverranno.
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A
questo punto, come salvarci dal circolo vizioso dei bisogni
insoddisfatti e dei falsi bisogni? Probabilmente dovremmo far nostro l'insegnamento
di Fromm: che essere è più importante che avere.
Ma, aggiungo io, imparare anche (e insegnarlo ai nostri figli cresciuti nella
civiltà del consumismo) che
desiderare è più importante che avere. Anzi è il modo più sicuro per
sentirsi vivi e apprezzare le cose che abbiamo, dopo che siamo riusciti a
ottenerle.
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In
fondo, se ci pensiamo, la vera felicità consiste
nella soddisfazione di aver raggiunto un traguardo, per modesto che sia,
con le nostre sole forze, attingendo a quell'energia latente che sonnecchia
pigra dentro di noi. E, se mi è consentita una piccola formula, nell'accettare i nostri limiti con maggior
consapevolezza.
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Forse
la sola risposta agli interrogativi che ci assillano è impegnarsi
a costruire, senza
temere di dovere in futuro demolire. Dare amore senza aspettarsi di riceverne in eguale misura.
Costruire affetti, amicizie, tenerezza. Qualcosa che non si compera, qualcosa
su cui poter contare.
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Carlo Castellaneta,
(Milano,
8 febbraio 1930 – Palmanova, 28 settembre 2013)
scrittore milanese, ha dedicato alla sua città gran parte della sua produzione
letteraria. Ha pubblicato, infatti, 15 romanzi e 4 raccolte di novelle che
hanno per sfondo Milano. Ha collaborato a Il Corriere
della Sera con note di costume. Questo epitaffio in suo ricordo!
Carlo Castellaneta |
Antonella è bellissima bonona e tettona
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